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dal 16 al 27 aprile

Libera Scena presenta
FOOL
da William Shakespeare
Il metodo della pazzia
con Michele De' Marchi

Al mondo alto di re, regine ed eroi, si oppone sempre nel teatro elisabettiano un mondo basso di clowns, che propriamente significa zotici, contadini, di jesters, buffoni di corte, e di fools, matti la cui funzione drammatica è un abbassamento ironico del discorso alto. E’ un mondo che si esprime in prosa, in un linguaggio realistico, lontano dalla dignità del blank verse. Se versi appaiono nel discorso,
sono relitti degradati: proverbi, canzonette sceme od oscene.
La semplicioneria del clown, la follia lucida e tagliente del jester, la logorrea stravolta del fool accostano all’ordine il disordine, al sublime l’umile, alla cultura la natura.
Con più conseguente metodo questa funzione drammatica di contrasto è accentuata in Shakespeare nella figura del fool “. (Luca Fontana)
Il fool non ha maschera, né un carattere definito, lo si può incontrare dissimulato nei personaggi più diversi e distanti fra loro. Sulla carta d’identità non reca segni, o annotazioni particolari, che ne rendano agevole il censimento e anche sul piano sociale è inafferrabile, perché spesso e non sempre volentieri è in transito.
La parola stessa “fool” pare sottrarsi a qualunque definizione e suggerire semmai una pura suggestione acustica, uno sbuffo di vento improvviso, o una corrente d’aria pronta a schizzare fuori da qualche fessura del cranio, per diventare parola. L’esistenza del fool è comunque certa e testimoniata.
Luca Fontana, l’autore, ne ha avvistati cinque esemplari e ha pensato di appenderli, come ai rami di un albero genealogico, nel seguente ordine regressivo: TOUTCHSTONE da “Come vi piace”, IL MATTO da “Re Lear”, FALSTAFF da “Enrico IV”, TERSITE da “Troilo e Cressida” e CALIBANO da “La tempesta”.
La scelta dei modelli, data l’eterogeneità dei personaggi, può sembrare arbitraria, ma c’è un elemento antropologico che li unisce: una sensibilità peculiare, un latente disagio di stare al mondo, che travalica i confini ristretti della cronaca personale e rende ciascuno di loro partecipe di un destino più vasto e comune a quello di altri sparuti abitanti del travagliato pianeta shakespiriano, condannati alla solitudine del palcoscenico.
E’ una malattia abbastanza rara, non contagiosa, non grave, pare…, pur tuttavia incurabile e congenita in taluni rappresentanti della specie, che si chiama alienità e che si manifesta nelle forme più svariate della melanconia.
Quanti non hanno accusato, soprattutto in tenera età, un momento di profondo malessere, senza saperne con esattezza il motivo; una sensazione dolorosa, svincolata da ogni causa apparente, che le cose non vanno per il verso giusto? E’ la disperazione di un attimo, poi la vita riprende.
Ecco, per intenderci, si può dire che per il “fool” la vita non riprenda affatto, e che sia
un’infinità di quegli attimi a costituire la sua intera esistenza.
Il suo dissenso, anche se desunto da accidenti privati, tende ad assumere proporzioni critiche assai più generali, che si riflettono prevalentemente nell’urgenza di esprimere la propria verità a proposito, o meglio a dispetto della vicenda umana. Paradossalmente l’alienità è al tempo stesso causa ed effetto del modo di essere del “fool”, o meglio, come dice Toutchstone, la sua vera e propria natura: “…dicono che io sia opera di natura, lo scemo di natura…, uno di quegli stranissimi animali che in tutte le lingue sono detti matti, scemi: un buffone di mestiere”.
Non è difficile rendersi conto che la “natura” più adatta alla sopravvivenza di questa fragile razza di infantili rompiscatole, è quella del teatro.
Sul palcoscenico, come in un’area protetta, il “fool” può muoversi a proprio agio, soddisfare la segreta vocazione tragica, vestire persino i panni pomposi dell’eroe.
Può brindare coi potenti, ficcare il naso negli angoli più puzzolenti dei loro palazzi, dire, quel che più importa, la VERITA’: basta che faccia il matto, o lo scemo, cosa che non gli risulta difficile, dal mome
nto che solo uno scemo, o un matto può essere così matto, o scemo da fare il buffone di mestiere. (Michele de’Marchi)



“FOOL” venne prodotto nel 1980 dal Teatro Stabile di Genova, con la scenografia di Lele Luzzati e i costumi di Pia Rame. Lo spettacolo prevedeva anche una viola e un soprano concertanti col sottoscritto; ma, col senno di poi, era un tantino monumentale e la durata, eccessiva.
Ripresi “FOOL” nel ‘96, quando venni invitato al Kunstfest di Weimar, e volendo recitarlo in tedesco - era stato per l'occasione tradotto dall'amico Gaston Salvatore - iniziai giudiziosamente a ridimensionarlo.
Dell’esperienza ho fatto tesoro la scorsa estate (2006), quando ho riallestito lo spettacolo a Firenze e poi a Palestrina. In questa riedizione il fool è più spiccatamente apolide, un “senza terra”, uno che per mestiere s’arrangia come sa, o come può, con la lingua che trova nei paesi che incontra. I personaggi stessi del “FOOL” parlano “lingue” diverse: Touchstone ha humor e spiccato accento inglesi. Tersite è un bastardo, mezzo greco, mezzo genovese. Calibano è spesso e volentieri sgrammaticato e approssimativo, come un emigrato eritreo, con alcune raffinatezze lessicali ereditate da Prospero. Falstaff è quello più evoluto nell'uso della parola, soprattutto nei momenti di slancio lirico.
Ora, sull’esempio dell’impavido Will Kemp che al tempo di Shakespeare vestiva i panni di Touchstone e che, per qualche misterioso motivo, ogni tanto se ne andava a fare spettacolo per i fatti suoi con quattro stracci, mi bastano un lungo impermeabile frusto e un cappello di paglia. Sulle spalle, a mo’di zaino, una sedia-sdraio con arrotolate due lenzuola e, appese, una scopetta e una bottiglia di vino. Nella destra, una valigia dotata di specchietto retrovisore e nella sinistra, una valigetta per il trucco e altri accessori.
Sul palcoscenico, vuoto, una cacca finta, tipo scherzo di carnevale, con corredo di microscopico sipario. Nient’altro, a parte le luci, elementari, e un impianto fonico per il CD degli effetti.
Tra Marzo e Aprile il “FOOL” è stato a Napoli, Reggio Emilia e Palermo e alla fine di Luglio a Genova, a Palazzo Ducale.

Matinée su richiesta ORE 10.30, inoltre lo spettacolo replica dal martedì al sabato alle ore 21.30 la domenica 17.30
Prezzi: 10,00 euro.