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30 Marzo - 3 Aprile
TEATRO VALDOCA
PAESAGGIO CON FRATELLO ROTTO
Regia di: Cesare Ronconi.
Parole di: Mariangela Gualtieri.
Con: Marianna Andrigo, Silvia Calderoni, Leonardo Delogu, Elisabetta Ferrari,Dario Giovannini e Muna Mussie.

Musiche dal vivo: Dario Giovannini.
Campionamenti: Aidoru.
Scene di: Stefano Cortesi.
Costumi di: Patrizia Izzo.
Fonico: Luca Fusconi.
Macchinista: Federico Lepri
Organizzazione: Morena Cecchetti e Emanuela Dallagiovanna.


dProduzione: Teatro Valdoca in collaborazione con Teatro A.Bonci di Cesena, Drodesera > Centrale Fies 2004.

Con il contributo di Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Regione Emilia Romagna e Provincia di Forlì-Cesena.


Progetto Speciale:
Fango che diventa luce
In questo progetto multimediale sono state documentate, attraverso video, interviste e fotografie, le fasi della produzione dello spettacolo. Le risorse presenti nello speciale sono state realizzate da crushsite.it negli spazi di Centrale Idroelettrica di Fies (drodesera>centrale fies) dal 10 al 27 luglio 2004.



PAESAGGIO CON FRATELLO ROTTO
Tre tappe spettacolari ideate e dirette da Cesare Ronconi
Prima tappa: Fango che diventa luce

Tre animali, un macellaio, un oracolo ed un cantore: al centro un altare o forse uno scannatoio, una macelleria. Poi un grande organo che suona dal vivo, imponente, espanso: il suo suono è rotto a tratti da strappi di musica rock, dalle voci recitanti, dai versi degli animali. Le parole sono visionarie. Le immagini dure e impressionanti. La musica, il canto e i tanti simboli che riempiono la scena, tutto tenta di parlare a qualcosa che non è l’intelligenza.
Non abbiamo smesso di credere nella forza della poesia, di pensare ad uno spettacolo anche come atto di resistenza contro la Signoria Attuale. Che cosa sia questa Signoria Attuale in parte tutti lo sappiamo e in parte non lo sapremo mai: una forza, comunque, che tenta di fare di noi un ovile muto, di deprimere la nostra vivezza, di metterci sulla schiena pesi schiaccianti. Ci guardiamo intorno e scorgiamo ovunque segni invasivi di questa forza indebolente. Pochi chilometri più in là la vediamo all’opera coi suoi morti ammazzati e bombardati.
Ecco, ci muove una voglia d’esortazione, una paura, una pietà. Soprattutto la voglia di tenerci ben desti, di pronunciare parole troppo taciute, di cantare e ballare con la potenza disarmata dei bambini.

In quest’opera c’è il ritratto, l’istantanea, di qualcosa di attuale e invisibile.
C’è un dolore che sembra riguardare soprattutto l’occidente: la spaccatura micidiale fra noi e l’anima del mondo, quell’energia intuita e sempre tradita, che ci tiene vivi.
Questa “anima del mondo”, taciuta con superiorità dalla scienza, rimpicciolita a corpuscolo con macchie dalla religione, resa ridicola dalla razionalità, resa retorica e melensa dalla lingua corrente, ecc., questo pezzo di brace cosmica che brucia nella terra e in ognuno di noi, questo è ciò che goffamente viene fotografato in questo primo paesaggio.
E’ anche fotografata la distanza fra ciò che sentiamo e il modo in cui viviamo, fra il nostro dentro e il nostro fuori, per dirla semplicemente.
“Come siamo andati lontano da ciò che ci tiene in vita!” grida la filosofia.
Qui appunto si fotografa quella lontananza.
Non so se ciò avvenga attraverso i corpi dei tre animali in scena, la loro leggerezza, dolcezza, bizzarria, forza, o se avvenga piuttosto “in mancanza” , cioè in quella sottolineature che prende a volte ciò che viene nominato in assenza.
Ho detto ‘goffamente’ per dire che tutto in scena pare fuori misura, perché in realtà è come avere a che fare con un torrente, con un incendio, con un terremoto, con qualcosa insomma che non ci sta dentro la compostezza e la misura di uno stile.
Un tema davvero incandescente, in cui è facile bruciarsi la faccia e la veste. Ma pensiamo che il teatro sia proprio questo sporgersi sul presente e cantarlo, come hanno fatto i classici, con la propria lingua, cantarlo ai contemporanei (cioè a quelli vivi con noi adesso), con segni che a loro appartengono.
E soprattutto cantare ciò che più è taciuto, con tutti i rischi che ciò comporta.
Come sempre di fronte ai lavori di Cesare, la razionalità non è la miglior guida alla visione, quanto piuttosto l’abbandono. La sua regia non procede mai progettualmente, né razionalmente ma per intuito, folgorazioni, strappi, accensioni. E soprattutto nel rapporto stretto con gli attori:
nel breve tempo di prove, le sei figure in scena sono cresciute in modo per me sbalorditivo, hanno assunto forza, pienezza, urgenza, bravura. Ciascuno porta la fiammella avuta in consegna e la rilancia: una sacerdotessa che è tutta pensiero e voce, un macellaio col quale è facile identificarsi, violento e pietoso, sbagliato dalla radice e scatenato, un organista che vola sui pedali di legno e dà suono a tutto ciò che avviene in scena. E da ultimo, di nuovo, i tre animali: la loro forte anima ci fa sentire quanto di noi, adesso, manchi. A loro abbiamo dato le parole di un poeta molto caro alla compagnia: Milo de Angelis.
So che le parole che ci ho messo io sono su un limite, e forse qua e là cadono: insomma consegno un dono avendo a volte le mani sporche. Ma è solo terra, fango: chi vuole potrà scrollarselo di dosso e lasciare che esse facciano il loro lavoro di parole riverberanti. Questo succede quando si scrive dentro la scena, e si è in qualche modo travolti da ciò che ogni giorno, lì dentro, succede.

M.G.