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BAHAMUT

con Antonio Rezza
e Ivan Bellavista e Giorgio Gerardi
quadri di scena Flavia Mastrella
(mai) scritto da Antonio Rezza
assistente alla creazione Massimo Camilli
documentazione fotografica Stefania Saltarelli
disegno luci Maria Pastore
disegni Flavia Mastrella

produzione RezzaMastrella, La Fabbrica dell'Attore – Teatro Vascello

Tre prologhi, un corpo

Un uomo steso fa le veci del tiranno.
E cede il passo all'atleta di Dio che volteggia sulle sbarre con le braccia della disperazione. E poi un nano, più basso delle sue ambizioni, che usa lo scuro per fare, e la luce per dire. Frattanto qualcuno cade dall'alto e si infila i piedi nella gola.
E quindi la realtà figurata delle vittime del povero consumo, connotate da assenza di astrazione, con il padrone unto dall'autorità del denaro.

Ma si affaccia Bahamuth, l'essere supremo, che dopo breve apparizione si sottrae al tempo e  al giudizio.
Mentre la merce si mescola a corpi fatti a pezzi.
Pezzi di uomo ancora da nascere ma già immolati alla meschinità costituita.
E viaggiatori dell'anima con il corpo stanco, alloggiati come bestie a copulare nel grande albergo della carne mozza.
Intanto le sfilate della vanità su corpi zoppi e deceduti. E un amico che parla senza voce e sente senza orecchie.
Ma il senso della vita si incontra solo all'infinito dove l'uomo fa la fine del capretto da sgozzare. Brufoli e depressioni tristemente accomunati con le bibite a ghiacciare le parole nella gola.
Ma la corsa al vestire il corpo nudo e verme non da tregua all'uomo pellegrino, mentre le braccia del padrone, camuffate da proletariato, saltano al ritmo di una danza di classe.
E l'orologio segna sempre l'ora in cui un passerotto castrato, si affaccia e grida la  sua costernazione sotto forma di cucù, per poi rientrare diligente nella trappola del tempo. Editti a favore di chi non ha.
Urla squassanti di chi non è.
Urla come indiani, urla che non vengono capite perché non le si vuol capire. Ma come Bahamuth sostiene il mondo, così le immagini si  sovrappongono.
E il gran finale, con i personaggi a fare la figura degli sguatteri mentre l'autore che li muove  è il gerarca dalla lingua biforcuta.
L'autore è il male dell'opera.

 

SCENA E STRUTTURA

Dal giocattolo a Bahamuth

In una scatola appena accennata, un uomo trascorre l'agonia che lo porterà a una nuova vita fatta di rigurgiti tribali e storie passate, inquinate da problematiche  contemporanee.
Il lavoro di ideazione dello spazio scenico è durato due   anni.
Ho concepito la scatola e gli altri elementi scultorei per l'allestimento scenico di Bahamuth pensando a un grande giocattolo, sviluppando l'idea delle sculture in tasca * (una ricerca di microscultura che porto avanti dal 2004).
L'allestimento scenico è composto da pochi elementi – L'abito rosa, in stoffa e metallo, spersonalizza la materia uomo, dando vita a un personaggio antropomorfo che si muove sul palcoscenico col carisma di un essere mitologico incline a problematiche conservatrici.
Il volo è un elemento simile a un ventaglio ingigantito, azzurro e arancio di stoffa e legno: la scultura non riesce a decollare per motivi di spazio e diventa componente estetica, emblema della potenzialità ignorata…. I quadri di scena mutanti frammentano il corpo recitante che si moltiplica col movimento e racconta di un sé contaminato, reattivo fino allo  sfinimento.
Gli oggetti sono ridotti al minimo… Bahamuth vive di atmosfere e non considera gli orpelli  che umanizzano la situazione giocattolo, e dirigono la percezione alla facile  comprensione.
La scatola, giocattolo di metallo, legno, stoffa verde e aria, determina un vincolo formale e provoca un'urbanizzazione dello spazio composto di piani d'aria, definiti da rette quasi   mai parallele.
Il giallo fluorescente delle aste, le dimensioni spropositate, i rapporti di equilibrio  distorti, danno all'uomo d'oro, che vive l'ambiente, la possibilità di sfinirsi nell'immobilità e in seguito     di estendersi e saltare affiancato dai due ragazzi blu, intesi come elementi    dinamici.
I due giovani mettono in moto le possibilità meccaniche della struttura, ruotano le ali leggere     e svolazzanti che chiudono la scatola e si mostrano indaffarati intorno al fardello uomo,  entrano in scena frantumando la solitudine del protagonista e la staticità  della    scultura.
La scatola, elemento filiforme dall'equilibrio bizzarro, possiede solo l'illusione della chiusura, è vibrante nello spazio e soprattutto è dipendente alle sollecitazioni     dell'umano.
Antonio è partito dall'immobilità di un uomo steso.
La storia dello spettacolo è nel ritmo: i passi, le frasi, i frammenti narrati, sono tenuti       assieme dal corpo–parola.
Il susseguirsi delle vicende è una costruzione creata con le regole del montaggio cinematografico; Bahamut si svolge in uno spazio esterno-interno che logora la percezione      del tempo e lo reimposta.
La sequenza drammaturgica è costruita mettendo in relazione i frammenti di storie con   i movimenti e con i ritmi  sonori della parola recitata in  corsa.
La triade parola-corpo-spazio si manifesta in forma biforcuta, a tratti sintetica e metaforica e  in altri momenti estremamente   rappresentativa.
La successione degli eventi nell'ambiente giocattolo, devia la percezione del  reale dall'immagine persuasiva.

* LE SCULTURE IN TASCA SONO materia APPENA ACCENNATA COMPOSTA CON IL CRITERIO DEL MARE... CON IRONIA PARLANO UN LINGUAGGIO CODIFICATO NEL PARTICOLARE E STRAVOLTO NELLE DIMENSIONI
Teatro leggero

L'allestimento scenico di BAHAMUTH è veloce da montare come Pitecus IO e Fotofinish.
La stoffa e il metallo sono le materie che rispondono meglio alle mie  esigenze di leggerezza. In Bahamut ho inserito anche degli elementi di legno per rafforzare la stabilità della  scatola. Questa innovazione  nella materia mi ha molto divertito ed era necessaria affinché venisse  fuori la forma del giocattolo con tutto il suo sapore.
La struttura mangiaspazio e l'allestimento dell'ambiente che accoglie la rappresentazione,      sono  per me due opportunità scoperte nel 2003 con la nascita dello spettacolo  Fotofinish.
Bahamut mi ha permesso di sviluppare queste due intuizioni, ma mentre prima parlavo  di estensione lineare ora affronto la capacità spaziale del singolo elemento  scultoreo.

(FLAVIA MASTRELLA)

Come corpo pensavo
In quanto carne pensavo di conoscermi.
E invece mi sorprendo di come, ancora una volta, la mente mandi il corpo a soffrire per  poi rintanarsi nella facilità del pensare.
Mi muovo da molto con le membra a sfiancare e quindi dovrei aver compreso l'indole    del patimento.
Ma nel caso di Bahamuth ho scoperto che gli organi interni hanno una coscienza viva se sottoposti a un'andatura  sussultoria e verticale. Nelle opere precedenti il mio incedere è  stato lento nella sua difficile armonia e poi veloce nel pendolare circolare e incessante. Ma ciò   che  incessa quasi mai decessa e cioè, qualunque carne con le ossa attaccate si abitua se ben addestrata.
E quindi, dopo "Fotofinish" ero certo che il massimo del movimento fosse stato   raggiunto. Creare un qualcosa di più faticoso era arduo e poco intelligente.
Ma nella scatola le corse laterali me le son proibite dall'inizio. L'allestimento di Flavia Mastrella ha suggerito soluzioni azzardate.
E ho cominciato a fare del mio corpo un assoluto verticale, con salti da fermo e in  progressione che danno il ritmo alle  interiora.
E ciò lo percepisco mentre mi esibisco.
Sento il cuore affaticarsi e la milza intenerirsi, sento lo stomaco in subbuglio, per nulla       offeso da un compito non suo.
Insomma avverto un corpo diverso, sottoposto alla trazione verticale che ne esalta  l'allungarsi non della vita ma almeno  delle  membra  tutte.
E mi sorprendo ancora di come, mentre la pelle se ne va a finire, la mente la costringa   a  spasmi insperati e vigorosi.
E per questo il pensiero è inferiore.

Come urla sentivo
L'inserimento delle urla come suono costituisce il nuovo orecchio di uno spettacolo  fatto per     i soli occhi.
Privilegio di chi vede è il non capire  ciò  che un altro fa. Le parole aiutano la miseria  della     media comprensione.
Le urla  fanno la musica senza le mani. La gola non si  suona con le dita a meno che non ci  si voglia soffocare. E nessun urlo può essere raggiunto dalle mani, tirato fuori e mostrato a chi  ci guarda.
Insomma con le urla ci si accorcia il patibolo. Ma questo sembra un atteggiamento  pessimista di chi non ama la vita a sufficienza. E invece no, io  amo fare quello che non si  può  comprendere.
In questa opera ultima le urla unificano le parole intere: le urla sono fatte solo di  vocali allungate che cingono la preda del concetto e la mandano a morire nella testa di chi ignaro si attarda a capire.
Io sono il mio tamburo e mi suono al ritmo mio.

(ANTONIO REZZA)

Info
06.5881021 – 06.5898031
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